Il corale Wenn wir in hoechsten Noethen
A questo punto, il corale
Wenn wir in hoechsten Noethen appare come un'aggiunta del tutto arbitraria da parte di chi curò l'
edizione a stampa del 1751, e non imputabile quindi all'originaria volontà di Bach concernente l'organizzazione strutturale dell'Arte: prova ne sia il fatto che la tonalità del corale è sol maggiore (mentre tutta l'
Arte è in re minore), e che in esso non compare mai il soggetto principale su cui si basano tutti i contrappunti ed i canoni.
Tuttavia, anche se non fu progettato per essere parte integrante dall'
Arte della fuga, il corale (catalogato come BWV 668a) costituisce molto probabilmente l'ultima opera musicale di cui Bach sembra essersi occupato, già sul letto di morte e ormai completamente cieco: sia la nota di Carl Philipp Emanuel posta dietro il frontespizio della
prima edizione a stampa dell'
Arte (1751), sia la prefazione di Marpurg che apre la
seconda (1752), sia la biografia bachiana di Forkel pubblicata nel 1802 affermano che Bach dettò il suo ultimo corale ad uno dei presenti al suo capezzale (probabilmente il genero Altnickol). Il brano però non costituiva una nuova creazione, bensì una rielaborazione del corale a quattro parti con omonimo titolo composto da Bach intorno al 1715, e inserito nell'
Orgelbüchlein (e oggi catalogato come BWV 641); nonostante si trovasse a pochi giorni dalla morte, privo di forze e della vista, nella versione realizzata sotto dettatura – la cosiddetta
Diktatfassung, il cui manoscritto è al momento perduto ma che poi confluì nella stampa – Bach non rinunciò a variare il corale di partenza espandendolo e configurandolo in maniera più spiccatamente contrappuntistica e meno ornamentata, coerentemente con l'orientamento compositivo che contraddistingue i suoi ultimi anni.
Il quadro della questione è tuttavia complicato ulteriormente dalla presenza di un'altra versione dello stesso corale, ossia il BWV 668, caratterizzato da un testo musicale quasi identico ma dal titolo differente (
Vor deinen Thron tret ich), titolo che, essendo inerente all'arrivo dell'anima umana nel regno dei cieli, sembrò subito collegabile all'imminente decesso di cui Bach era ben consapevole. Anche il BWV 668 venne realizzato da Bach nelle ultime fasi della propria vita, perché fin dal 1747 uno dei principali progetti del compositore consistette nel 'riordinare' – e in molti casi modificarne il testo musicale – il vasto
corpus di corali per organo realizzati nel periodo di Weimar e ripresi una volta stabilitosi a Lipsia, probabilmente con l'intenzione di pubblicarli in una raccolta organica; è quindi da collegare a questo progetto la formazione di uno dei più importanti manoscritti autografi bachiani, il cosiddetto
autografo di Lipsia (Berlino, Deutsche Staatsbibliothek, Mus. ms. autogr. Bach P 271), che contiene per l'appunto anche 18 corali per organo. Il diciottesimo, l'unico ad essere stato trascritto da una mano non ancora identificata, è proprio il corale
Vor deinen Thron (quindi il BWV 668), ma purtroppo questa versione si interrompe alla venticinquesima misura in quanto manca la pagina successiva.
Dato che le due versioni (668 e 668a) non sono identiche, anche se molto simili, due questioni sorgono spontanee: perché portano due titoli differenti? E soprattutto, dato che effettivamente il corale BWV 668 presenta alcune soluzioni armoniche più interessanti, raffinate e complesse del 668a inserito nella stampa dell'
Arte della fuga, quale delle due versioni rappresenta 'l'ultima volontà' bachiana? Alberto Basso non indaga i motivi delle differenze stilistiche (tutt'altro che irrilevanti) tra le due stesure, ma è del parere che anche quella catalogata 668 sia stata copiata nella silloge
dopo la morte di Bach, e che comunque il compositore abbia scelto per il corale riveduto il consolatorio titolo
Wenn wir in höchsten Nöthen (dopotutto era il titolo anche del BWV 641); tutta la tradizione leggendaria legata allo
Sterbechoral ('corale della morte', revisionato e dettato negli ultimi giorni di vita) si sarebbe poi attestata intorno all'altro testo (
Vor deinen Thron tret ich) perché questo sembrava calzare perfettamente l'idea romantica del musicista geniale che, conscio della fine imminente, decide di lasciare un ultimo testamento musicale.
Di altro avviso è David Yearsley, autore del recente e aggiornato volume
Bach and the Meanings of Counterpoint [11]: lo studioso ipotizza la preesistenza della versione 668, riveduta, ampliata e copiata sull'autografo di Lipsia
prima della morte di Bach, ma trascritta da un altro copista a causa della sopraggiunta cecità del compositore. Poi, pochi giorni prima della fine, Bach scelse proprio quello stesso suo corale e non altri per via del testo fortemente collegato all'idea di trapasso nel regno celeste; le pratiche luterane relative alla gestione degli ultimi giorni dei moribondi prevedevano infatti, oltre ad una sorta di 'preghiera continua', l'ascolto di musiche sacre per 'anticipare' i cori angelici dell'aldilà: agli esercizi spirituali di questa
arte di morire [12] si aggiunga il forte valore simbolico che il contrappunto rigoroso aveva assunto da tempo nella cultura tedesca, sia a livello scientifico che, inevitabilmente, teologico (e ben testimoniato in documenti e trattati coevi). L'esercizio contrappuntistico su di un corale sacro perseguito attraverso le rigorose, matematiche e
divine proporzioni musicali costituiva, per il geniale quanto devoto
Kantor, la più pura e commossa preghiera in vista della fine.
Anche se il nostro corale non appartiene quindi formalmente alll'
Arte della fuga, la sua esecuzione concertistica vuole costituire innanzitutto un omaggio a Johann Sebastian Bach: il rigore e l'esattezza dell'architettura interna non oscurano, anzi esaltano la dolcezza e l'innocenza delle linee melodiche originarie (il
cantus del semplice corale di base è datato 1547), in una profonda alchimia che coniuga musica
per l'occhio e musica per l'anima.
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11. Edito a Cambridge per la Cambridge University Press, 2002; si vedano in particolare le pp. 1-41.
12. Cfr. Yearsley, David. Bach and the Meaning of Counterpoint, cit., pp. 4-6 e seguenti, dedicate ai trattati ed ai documenti superstiti relativi all'ars moriendi nella cultura protestante.